La locomotiva del Sudamerica continua a crescere, anche se a un ritmo inferiore alle aspettative. E per il Fondo monetario internazionale è troppo spendere il 40% del bilancio per lo Stato sociale. La presidentessa Dilma Roussef, però, tira dritto: «Non faremo come la Spagna che aumenta le tasse, taglia stipendi e tredicesime, e il Paese va sempre peggio». E annuncia nuove abitazioni per i poveri.
Capita, in questa strana crisi dei giorni d’oggi, che nei palazzi dove si cercano strategie utili a risollevare le sorti economiche del mondo, oltre a tentare l’elaborazione di soluzioni generali per invertire una rotta a dir poco pericolosa, si cerchi di dare indicazioni anche ai Paesi virtuosi sul come migliorare i propri standard. E se tra questi c’è chi continua a crescere, anche se sempre meno, ma continuando a distribuire la ricchezza e garantendo uno stato sociale efficiente, le critiche di certo non diminuiranno, anzi. Proprio ciò che è successo al Brasile. La scorsa settimana il Fondo Monetario Internazionale, ha dato una ulteriore sforbiciata alle aspettative di crescita del gigante sudamericano, stimando una chiusura per il 2012 su uno stentato 2,5% di incremento di Pil, con un’aspettativa maggiore però per il 2013.
La contrazione dei consumi in Europa e il relativo calo delle esportazioni non ha certamente risparmiato il Brasile, che con la flessione della sua economia ha tirato giù l’aspettativa dell’intera area latinoamericana. Qualcosa che preoccupa Washington. Quanto basta perché giungano critiche sulla gestione della spesa pubblica da parte e del governo della “presidenta” Dilma Rousseff. Quel che colpisce maggiormente, però, è che il dito degli analisti sia stato puntato non per evidenziare le carenze strutturali che caratterizzano ancora alcune aree del Paese, il problema della sicurezza, dell’istruzione, o per mettere in evidenza discutibili interventi di politica economica. La causa della frenata della crescita sarebbe da ricercare principalmente nella spesa per lo stato sociale. Numeri da capogiro quantificabili in un 40% del bilancio federale. Per alcuni davvero troppo. Non certo per Dilma, per nulla intenzionata a mandare in cantina il “modello Lula”, determinata a opporsi a un qualsiasi ritorno in chiave neoliberista della politica economica nazionale.
La formula utilizzata dalla “presidenta” per dettare la linea verde-oro, lungi dal seguire il burocratese molto comune nel vecchio continente, è stata quella dell’estrema chiarezza: «Non ricorreremo alle misure di austerità per combattere la crisi, come stanno facendo alcuni paesi europei come la Spagna», ha detto Dilma Rousseff in occasione di un incontro pubblico. «Oggi gli spagnoli stanno tagliando le tredicesime e il 30% dei salari, aumentando le imposte, e nonostante ciò il paese va sempre peggio». Precisando poi: «In Brasile siamo intenzionati a ridurre sistematicamente i costi, non però cancellando le conquiste sociali e salariali, bensì pensando a sgravi fiscali e formazione della manodopera. Questo è il nostro modo di non svendere i diritti dei lavoratori». Una presa di posizione che chiude la porta a qualsiasi possibilità di ipotetiche riduzioni della spesa sociale, caratteristica ormai da anni della gestione economica, che ora la presidente brasiliana dice…«renderemo più efficiente: spingendo sullo sviluppo, distribuendo i benefici al popolo». Nessun piano del governo sarà dunque rivisto.
Così il Brasile vuole confermarsi l’unico paese “sostenibile” del Bric. E una spruzzatina di retorica sudamericana per rappresentare questa idea è per la Rousseff particolarmente efficace: «Lo sviluppo di questo paese passa dalla tutela dell’infanzia. Lo sviluppo di una nazione si misura con la sua capacità di proteggere l’infanzia, non dal prodotto interno lordo». Concetti esposti in apertura all’ultima “Conferenza nazionale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza”, della scorsa settimana. Una buona occasione per tirare le somme di tutte le iniziative messe in campo dal governo per tirare fuori dal degrado e dalla miseria una fetta importante della popolazione.
Decine di milioni di persone che negli ultimi dieci anni, dal depresso nordest alle difficili periferie delle città fino alle favelas di Rio, hanno beneficiato dei vari programmi sociali. “Bolsa Família”, “Brasil Carinhoso”, “Brasil sem miseria” o dell’aumento del salario minimo quasi duplicato in pochi anni. Iniziative che hanno impiegato risorse enormi, affiancate ad altre altrettanto importanti come l’impegno per la pacificazione delle Favelas di Rio de Janeiro con le Upp, che il governo non vuole certo interrompere. Solo nel mese di luglio, sono stati annunciati nuovi investimenti per 35milioni di dollari per la costruzione di 500 unità abitative a Rio per trasferire circa duemila residenti dalle aree a rischio. Almeno un miliardo di dollari sarà poi stanziato per la costruzione di altre numerose “Upa”, piccole strutture ospedaliere di emergenza, capaci di assicurare prestazioni di pronto soccorso anche nelle zone più distanti dai grandi centri e dai grandi ospedali.
In un’epoca in cui lo stato sociale è messo in dubbio anche in molti paesi europei a causa dei numerosi e continui tagli, o dove in nome dello sviluppo non si va tanto per il sottile, il Brasile pare una eccezione. Una eccezione che molti gradirebbero ridimensionare, sia nell’immagine che nella sostanza, pressando per una riduzione degli aiuti ai poveri. La verità sta probabilmente nel fatto che la flessione del Brasile e degli altri Paesi che compongono il Bric ha visto sfumare anche l’ultima speranza di quanti puntavano su quei lidi per migliorare le sorti complessive dal globo, mai così interconnesso e mai così in difficoltà. Speranza sfumata anche perché i beni dei produttori non incontrano più una domanda soddisfacente da parte dei Paesi sviluppati piegati dalla crisi. Così il sogno del Bric si è interrotto con un brusco risveglio. Le aspettative sull’India sono state ridimensionate, o forse troppo si era sopravvalutato il Paese delle caste, dove ancora consistenti sono le sacche di povertà estreme, tra dati demografici inquietanti e uno sviluppo scomposto. La fabbrica Cina, nonostante tutto, paga più di altri il crollo del consumi e resta alle prese con un sistema non democratico di governo, che piega il dissenso. La Russia degli oligarchi non è più un interlocutore favorito come ancora pochi mesi fa, anche per la parziale delegittimazione popolare del duo Putin-Medvedev. L’accusa per il Brasile invece, tecnicamente il più moderno e avanzato politicamente dei Bric, è quella di spendere troppo per lo stato sociale.
3 commenti:
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Another Day in Paradise
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