In media, fin dal lontano 1992, spariscono dalla circolazione circa 30 miliardi di euro all’anno, necessari a sostenere gli impegni di Maastricht. Sono andati alle banche, straniere e italiane. Una voragine: negli ultimi vent’anni, gli italiani hanno versato 620 miliardi di tasse superiori all’ammontare della spesa dello Stato.
Ovvero: 620 miliardi di “avanzo primario”, il saldo attivo benedetto da tutti gli economisti mainstream e dai loro politici di riferimento, i gestori della crisi e i becchini della catastrofe nazionale che si va spalancando giorno per giorno, davanti ai nostri occhi: paura, disoccupazione, precarietà, aziende che chiudono, licenziamenti, servizi vitali tagliati. L’obiettivo di tanto sadismo? Entrare nei parametri di Maastricht e stare dentro l’Eurozona. Ma, nonostante l’immane sforzo, il debito pubblico non ha fatto che crescere, passando da 958 milioni a 2 miliardi di euro.
La realtà, scrive Pier Paolo Flammini su “Riviera Oggi”, è che tutto questo serve perché «lo scopo del debito pubblico non è di garantire la spesa pubblica, ma di fornire investimenti sicuri». Lo scrive chiaramente, sul “Financial Times”, la Bank of International Settlements, cioè la super-banca delle banche centrali. Ormai l’obiettivo dello Stato non è più il benessere della comunità nazionale, ma l’impegno a fornire titoli sicuri ai grandi investitori. Nell’Eurozona, aggiunge Flammini, l’Italia è stato il paese più penalizzato dai vincoli di bilancio. Fino al 2007, prima della “grande recessione”, erano stati destinati alla riduzione del debito pubblico 270 miliardi di euro, per portare la percentuale debito-Pil dal 121,8% del 1994 al 103,6% del 2007. In pratica, 20 miliardi di euro all’anno sottratti alla circolazione privata per 13 anni. «Ora, il problema è che la contrazione del debito pubblico in rapporto al Pil, con una moneta straniera quale l’euro, deve essere pagata dai cittadini con tasse e tagli alla spesa».
Oltre ai 270 miliardi della prima, storica emorragia, altri 350 miliardi sono semplicemente stati bruciati per il pagamento degli interessi sul debito. E quando poi le cose sono cambiate a causa del crac finanziario, il castello è saltato. Mario Monti, Olli Rehn e Angela Merkel, continua Flammini, hanno esibito la stessa identica ricetta per vincere la sfida col debito pubblico: e cioè meno spesa, tasse invariate o aumentate, riduzione di salari e stipendi, esportazioni privilegiate e riduzione dei consumi interni. E’ «la via del Bangladesh», osserva Flammini: «L’evidenza li ha sconfitti, ma non molleranno». Anche perché – permanendo l’euro e i suoi drammatici vincoli – non esiste alternativa. «E non ci sarà neppure per il prossimo governo che li accetterà: il debito pubblico, da saldo contabile, è diventato lo strumento attraverso il quale sottrarre potere a masse di popolazione sottoposte a shock informativi ed economici. Punto».
Nel 1980, nonostante l’inflazione indotta dal prezzo del petrolio (quadruplicato), l’italiano medio risparmiava il 25% del proprio reddito, e così fino al 1991. Gli operai compravano case anche per i figli, le famiglie facevano vacanze di un mese. Oggi, osserva Flammini, con le regole dell’austerità, abbiamo un’inflazione del 3% ma gli stipendi salgono solo dell’1,5%, il mercato immobiliare è fermo, il risparmio è crollato al 6% e le famiglie, in appena dieci anni, hanno aumentato i loro debiti del 140%. «Quasi tutti ormai intaccano i risparmi di una vita, o sono sul punto di giocarsi i 9.000 miliardi di euro di risparmio privato nazionale, la ricchezza sulla quale sono puntate le fauci delle corporation internazionali che tengono in pugno i finti leader politici italiani», mentre sui media ha tenuto banco anche la retorica sull’Imu, che in fondo pesa appena 4 miliardi di euro.
Nel 1978, aggiunge Flammini, sarebbe stata la Banca Centrale, esclusiva monopolista della moneta, a fissare il tasso di interesse e bloccare l’espansione del deficit negativo, quello per gli interessi. «Ed è quello che dobbiamo chiedere a gran voce, subito: inutile chiederlo alla Bce. Vogliamo tornare al denaro sudato con il lavoro e garantito dall’ingegno, e non dalla pura speculazione», sapendo che «il tasso naturale di interesse è zero». Chi ci ha guadagnato, dalla inaudita tosatura degli italiani? Quei 620 miliardi “rubati” ai contribuenti sono andati per il 43% all’estero, 250 miliardi finiti in banche straniere. Solo il 3,7% è andato a Bankitalia, mentre il 26,8% ad istituzioni finanziarie italiane, banche e assicurazioni, e infine il 13%, circa 80 miliardi, sono tornati direttamente nella disponibilità di privati cittadini italiani, ovviamente per lo più delle classi medio-alte.
«Siamo abituati ad ascoltare parole come “la corruzione ci costa 60 miliardi”, “l’evasione fiscale ci costa 120 miliardi”. In realtà – protesta Flammini – per quanto disdicevoli e da perseguire legalmente, queste voci (i cui importi sono poi da verificare) rappresentano una partita di giro interna con vinti e vincitori», mentre i 620 miliardi di avanzo di bilancio 1992-2012 sono frutto di una precisa scelta politica: «Sono soldi sottratti veramente ai cittadini e scomparsi dalla circolazione dell’economia vera per garantire la grande finanza». Aver trasformato il debito pubblico da puro dato contabile a cappio reale attorno al collo della società italiana, aggiunge Flammini, è la più grande responsabilità della classe politica dell’ultimo trentennio. «Nessuno, però, sta chiedendo scusa».
Basti leggere quel che Tommaso Padoa Schioppa scriveva sul “Corriere”: occorre «attenuare quel diaframma di protezioni che nel corso del Ventesimo secolo hanno progressivamente allontanato l’individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere». E quello sarebbe stato un ministro del centrosinistra? «Ecco perché non vincono mai». Ma il peggio deve ancora venire, grazie agli impegni micidiali sottoscritti dal governo Monti a beneficio di Draghi, «garante del pagamento degli interessi degli italiani». Col pareggio di bilancio inserito addirittura nella Costituzione, i circa 30 miliardi annui fin qui pagati dagli italiani saliranno a circa 90, per coprire del tutto la spesa per interessi. E con il Fiscal Compact, il salasso salirà ancora, dal 2015, fino a 140 miliardi – sempre per abbattere il debito. Come farcela? «Con l’Iva al 23%, l’inflazione al 2%, una trentina di miliardi di tagli e altrettanti di dismissioni del patrimonio pubblico. Se poi si è poveri, chi se ne frega».