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Perché abbiamo creato una civilità, quella in cui viviamo, figlia del mercato e della concorrenza, che ci ha portato un progresso materiale portentoso ed esplosivo. Ma ciò che è nato come “economia di mercato” è diventato “società di mercato”. E ci ha portato questa globalizzazione, che significa doversi occupare di tutto il pianeta. La stiamo governando, la globalizzazione, o è la globalizzazione a governare noi? E’ possibile parlare di solidarietà e dire che siamo tutti uniti, in una economia basata sulla competizione spietata? Fino a che punto arriva la nostra fraternità? La sfida che abbiamo davanti è di una dimensione epocale. E la grande crisi non è ecologica: è politica. L’uomo, oggi, non governa le forze che ha creato; sono queste ultime a governare l’uomo e la nostra vita.
Non veniamo al mondo per “svilupparci” in termini generici; veniamo al mondo con il proposito di essere felici. Perché la vita è breve e ci sfugge tra le mani. E nessun bene vale quanto la vita, questo è elementare. Ma se la vita finisce per sfuggirmi, lavorando e lavorando per consumare un di più, la società del consumo è il motore di tutto questo. In definitiva, se si paralizza o si rallenta il consumo, si rallenta l’economia; e se rallenta l’economia, è il fantasma della stagnazione per ciascuno di noi. Ma è proprio l’iperconsumo che sta aggredendo il pianeta. Ed è proprio l’iperconsumo a generare cose che durano poco, perché bisogna vendere molto. Una lampadina elettrica non può durare più di mille ore. Ci sono lampadine che possono durare centomila, duecentomila ore, ma non possono essere fabbricate, perché il problema è il mercato, perché dobbiamo lavorare e dobbiamo avere una civiltà usa e getta.
Siamo in un circolo vizioso: questi sono problemi di carattere politico, che ci portano a comprendere la necessità di lottare per un’altra cultura. Non si tratta di tornare all’uomo delle caverne, né di fare un monumento al regresso. E’ che non possiamo continuare indefinitamente ad essere governati dal mercato: dobbiamo governarlo noi, il mercato. Per questo, nel mio umile modo di vedere, dico che il problema è di tipo politico. I vecchi pensatori – Epicuro, Seneca, gli Aymara – dicevano: povero non è colui che ha poco, ma chi ha indefinitamente bisogno di molto – e desidera e desidera, sempre di più. Questa è una chiave di carattere culturale. Dobbiamo renderci conto che la crisi dell’acqua e la crisi dell’aggressione all’ambiente non sono una causa: la causa è il modello di civiltà che abbiamo costruito. E ciò che dobbiamo rivedere è il nostro modo di vivere.
Appartengo a un piccolo paese, ricco di risorse naturali per vivere. Il mio paese ha poco più di tre milioni di abitanti, ma ci sono 13 milioni di vacche tra le migliori al mondo. Abbiamo 10 milioni di pecore stupende. Il mio paese esporta cibo, latticini, carne. E’ un territorio pianeggiante, utilizzabile quasi al 90%. I miei compagni lavoratori hanno lottato molto per le 8 ore di lavoro, e adesso stanno ottenendo le 6 ore. Ma chi lavora solo 6 ore si trova un altro lavoro, e quindi lavora più di prima. Perché? Perché deve pagare una serie di rate, la bella moto, la bella macchina. E paga e paga, alla fine è un vecchio reumatico come me, e la sua vita gli è sfuggita. Domando: è questo il destino della vita umana? Queste cose sono elementari. Lo sviluppo non può andare contro la felicità: dev’essere a favore della felicità umana, dell’amore sulla Terra, delle relazioni umane, della cura dei figli, dell’avere amici, del non privarsi dell’indispensabile. Proprio perché questo è il tesoro più prezioso che abbiamo, ricordiamocelo; quando lottiamo per l’ambiente, il primo elemento dell’ambiente si chiama: felicità umana.
(Jose Mujica, presidente dell’Uruguay; estratti del discorso pronunciato alla conferenza mondiale “Rio+20” il 21 giugno 2012 a Rio de Janeiro).
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