“E SE AVESSIMO RAGIONE NOI CHE MOLLIAMO TUTTO PER INSEGUIRE LA FELICITÀ?”









Il percorso di vita di Francesco Grandis rappresenta tanti valori che abbiamo affrontato più volte su Mangia Vivi Viaggia.
Come racconta nel libro “Sulla strada giusta“, nel 2009 era un ingegnere con un lavoro a tempo indeterminato. Aveva tutto ciò che la società ti dice di ottenere per essere felice: una laurea, uno stipendio, una carriera e la possibilità di comprare una casa con il mutuo, metter su famiglia e (in futuro lontano) andare in pensione.

Eppure non era per niente felice.

Una storia simile a quella di molti altri, fino a questo punto. Poi la svolta: Francesco si licenzia e decide di partire per un lungo viaggio. Un viaggio alla scoperta del mondo, ma non solo: cercava la felicità, la soddisfazione personale, il senso della vita. Sé stesso.

Se apprezzate i contenuti che postiamo su Mangia Vivi Viaggia, volete cambiare la vostra esistenza, amate i lunghi viaggi in solitaria o siete semplicemente incuriositi da un punto di vista alternativo e molto interessante sulla vita e sulla società in cui viviamo, dovete leggere “Sulla strada giusta” di Francesco Grandis.

Nel frattempo, questa è la nostra intervista.
Ciao Francesco, benvenuto su Mangia Vivi Viaggia. Raccontiamo spesso storie di persone che mollano tutto e partono per un viaggio che rappresenta l’inizio della loro nuova vita. È il sogno di tanti, eppure molti dichiarano di non avere coraggio a sufficienza o di avere paura di fallire. Cosa diresti a una persona profondamente insoddisfatta della propria vita che teme di fare il grande passo?

Ciao e grazie di avermi ospitato.

Che dire? Fin dal 2009, anno delle mie dimissioni e del giro del mondo, mi son sentito rivolgere frasi come “vorrei, ma mi manca il tuo coraggio”. Ho sempre risposto allo stesso modo: non si è trattato di coraggio. Mi piacerebbe raccontarvi di essere stato l’intrepido eroe che molla tutto e affronta il lungo viaggio, ma non è così.

Un ingegnere con contratto a tempo indeterminato, uno stipendio sicuro, la gastrite che non passava e le ferie che non arrivavano mai: mi sono immaginato a fare quella vita per altri venti o trent’anni, col tempo che passava mentre io invecchiavo senza crescere, senza ricordi, accumulando più rimpianti che sogni. Ero terrorizzato.

Certo, licenziarsi, prendere uno zaino e girare il mondo da solo ha richiesto un po’ di coraggio, ma me ne sarebbe servito molto di più per restare. Il mio non è stato coraggio di affrontare l’ignoto, ma paura di restare in una vita che conoscevo benissimo.

Questo è quello che rispondo: sei infelice e vuoi cambiare? Allora cambia, e non chiederti se hai abbastanza coraggio per farlo: chiediti piuttosto se hai abbastanza paura.

E per quanto riguarda la tanto temuta paura di fallire… rispetto a cosa? A quell’immagine stereotipata che ci vuole tutti felici di avere un buon lavoro, una casa grande e una bella macchina? Mi fa più paura fallire come uomo. Di notte, fissando il soffitto, a chiedermi cos’ho fatto della mia vita. Lì non potrei mentire a nessuno, nemmeno a me stesso.

Di fronte a storie del tipo “mollo tutto e parto alla ricerca della felicità” si leggono spesso commenti negativi che dimostrano quanto sia diffusa e radicata una certa mentalità in Italia, secondo la quale nella vita si debba necessariamente soffrire e portare la croce, come se l’infelicità fosse inevitabile. Perché così tante persone sembrano detestare e aver quasi paura della prospettiva di cercare la propria felicità?

Perché è un percorso lungo e difficile, e pochi hanno voglia di intraprenderlo. È meno faticoso sognare la vita degli altri, quando sono famosi e “intoccabili”, o denigrare i tentativi di chi ci sta provando e dormire sonni tranquilli.

In questi anni ne ho sentite di tutte i tipi, da quelle offensive (che sono stato “solo fortunato”, che sono un “parassita che vive sulle spalle degli altri”, che sono “figlio di papà”), alle giustificazioni (eh, ma tu sei laureato, eh, ma tu hai i soldi, eh, ma tu avevi un lavoro), alle considerazioni socio-psico-antropologiche (eh, ma se tutti facessero come te, ma mica tutti vogliono/possono viaggiare).

Sinceramente? Tutte cazzate, dette al solo scopo di giustificarsi ed evitare un’unica domanda: “E se avesse ragione lui?”.

Già, e se avessi ragione io? Se davvero si potesse vivere meglio, con meno, mantenendosi con un lavoro che non odiamo? Ma è una domanda pericolosa, questa, di quelle che non ti fanno dormire bene la notte. Meglio trovare scuse, denigrare, e tornare a parlare di dove sono andati quest’anno i vip in vacanza.

Nel tuo libro metti in evidenza tutti i limiti e le contraddizioni della nostra società, che ci impone di lavorare per quarant’anni per poi restituirci parte di quel tempo perduto sotto forma di denaro, a un’età nella quale siamo ormai acciaccati e lontanissimi dalla forma fisica ideale per goderci la vita. Poniamo che tu abbia il potere di costruire una società da zero, nel 2017: come sarebbe organizzata?

La mia società ideale (e utopica) inizia dall’abbattimento di tutti i confini.

Ad oggi, siamo quasi otto miliardi, tutti divisi da razza, religione, nazione, sesso, età, lavoro, classe sociale, cultura, orientamento politico, squadra di calcio… le differenze ci impoveriscono, invece di arricchirci.

Divisi siamo vulnerabili, litigiosi, ottusi, menefreghisti. Insieme invece saremmo una potenza inarrestabile: immaginate cosa potrebbe ottenere l’umanità se collaborasse per un fine comune!

Abbattere i confini di ogni tipo è il primo passo per spostare il punto di vista dall’individuo al collettivo. Così, lo scopo non sarebbe più essere felici, ma essere tutti felici.

Sul piano pratico, un’umanità unita potrebbe reimpiegare con più equilibrio e accortezza le risorse del pianeta, in modo che tutti abbiano il necessario per vivere dignitosamente. Buona parte del lavoro potrebbe essere ottimizzato, automatizzato e delegato alle macchine (lavoravo nella robotica: conosco il campo), e le poche mansioni rimaste sarebbero spartite tra tutti.

Eliminata o ridotta la schiavitù del lavoro, a ognuno resterebbe il tempo per dedicarsi a qualsivoglia attività, e per seguire o scoprire le proprie passioni.

Ci sarebbe moltissimo altro da dire, ma non voglio dilungarmi troppo. Solo un accenno autopromozionale: questa è l’ambientazione del mio prossimo romanzo!

Storie come la tua dividono da sempre i lettori: c’è chi si entusiasma e chi invece critica aspramente. Tra i commenti negativi più comuni, oltre a quello sui soldi, ce n’è uno che riguarda la sostenibilità di una scelta del genere: “Se tutti facessero come te, come andrebbe a finire il mondo?” Cosa rispondi a questa domanda?

Le persone che si ergono a protettori della società dalle terribili conseguenze della mia scelta di vita sono le stesse che la criticano appena si trovano in coda alle poste: non gli darei troppa importanza.

Ad ogni modo, il fatto che io mi sia licenziato e abbia viaggiato è solo l’aspetto superficiale della mia storia. Andiamo più in profondità: un giorno ho deciso che la felicità e il benessere dovevano essere in cima alla mia scala dei valori, sostituendo la stabilità economica che era stata messa lì perché… chi lo sa, il perché?

Quando sei piccolo ti convincono che sia la cosa giusta, ma non lo è: il benessere di una persona include la capacità di provvedere a se stessi, ma anche serenità, salute, soddisfazione e rapporti umani. È un valore più complesso, e completo, della sola stabilità economica.

Allora, cosa succederebbe se tutti facessero come me, se ognuno anteponesse la propria felicità al semplice profitto economico? La società sarebbe costretta ad adeguarsi, e non sarebbe più necessario licenziarsi e scappare per cercare la felicità.

Non viviamo in una scatola che ci contiene e ci delimita: la società è composta da uomini e valori. Se le persone dessero più importanza alla felicità che alla ricchezza, il mondo non sarebbe così brutto. Forse si finirebbe proprio nello scenario che ho descritto qui sopra. Orribile, vero?
Passando al viaggio vero e proprio, nel tuo libro parli di quanto sia cambiato radicalmente il fattore “scoperta”: l’entusiasmo di un tempo, quando si vedeva la terra dopo giorni e giorni di navigazione, è sparito in un mondo che va alla velocità della luce e non ha più tempo per questi romanticismi. Come si può ritrovare ancora quella antica meraviglia del viaggio?

Credo che la principale differenza tra i viaggi del passato e quelli odierni sia nella maggiore quantità di informazioni a disposizione. Sappiamo moltissimo delle nostre destinazioni ancora prima di partire: per ogni luogo abbiamo guide, recensioni, itinerari, foto. Di per sé non è un male, ma informandosi troppo prima della partenza rischiamo di andare a vedere solo cose che conosciamo già.

Per tornare ai viaggi di scoperta e a un senso della meraviglia più intatto, bisognerebbe abbandonare tutta la preparazione e limitarsi alle informazioni essenziali per evitare i principali pericoli.

Andare e basta, senza avere una lista di posti da visitare o indirizzi già segnati. Una volta sul posto si dovrebbe seguire un po’ l’istinto, fare amicizia con i locali, chiedere qualche indicazione. Forse facendo così non vedremo tutti i posti indicati nella top 10 della Lonely Planet, ma non credo che gli antichi viaggiatori ne avessero una.
Due temi che trattiamo spesso e che compaiono anche nel tuo libro sono il minimalismo e il contatto con la natura. Due temi fortemente legati tra di loro, perché più accumuliamo compulsivamente e più ci allontaniamo dal nostro stato naturale. Al giorno d’oggi si tende a mettere gli oggetti davanti alle emozioni e a credere che siano in grado di offrire più di quanto possa fare la natura. Viaggiare è un modo per rompere questa mentalità e tornare ad apprezzare la bellezza di ciò che ci circonda?

Mi sono chiesto spesso come siamo arrivati allo stato attuale delle cose. Da qualche parte, nel nostro passato, ci siamo convinti che avere molte cose fosse un bene. Forse lo era davvero, quando in effetti la sopravvivenza quotidiana non era scontata… ma oggi? Come siamo arrivati a chiuderci in scatole di cemento per la maggior parte del nostro tempo, a fare cose che generalmente non ci piacciono, in cambio di soldi che usiamo per comprare cose che non ci servono davvero?

L’avere è diventato più importante dell’essere, e persino del vivere!

Credo che la natura ci aiuti a riavvicinarci alla nostra essenzialità. In un ambiente naturale ci sentiamo più autentici e leggeri, spogliati di tutto il superfluo di cui sono ricoperte le nostre vite malsane. La natura ci invita al benessere, alla semplicità. Forse è un richiamo antico, che parla direttamente al nostro istinto primordiale, quando avere cibo, riparo e il conforto della compagnia era sufficiente.

È una sensazione simile a quella di un certo tipo di viaggi, come i lunghi cammini, ad esempio. Quattro cose nello zaino, un panorama che ci scalda l’anima, una strada infinita davanti ai piedi. Un uomo potrebbe essere davvero felice, anche con poco.

Il tuo libro si conclude con la nascita di tuo figlio. Dopo anni di viaggio in solitaria, ti ritrovi oggi in compagnia di una persona che non solo condividerà con te la vita, ma di cui ti dovrai anche prendere cura. Al di là della domanda su come si affronta un viaggio con un bambino al seguito, vorrei sapere cosa ne pensi di una frase attribuita a Christopher McCandless in punto di morte: “La felicità è reale solo quando è condivisa”.

Ho più anni di viaggio solitario alle spalle che esperienza con i bambini, ma finora ho capito questo: esistono due tipi di percorsi, quello individuale e quello condiviso.

Per lungo tempo ho viaggiato e vissuto da solo. Quella solitudine mi è stata necessaria per comprendere moltissime cose su di me, conoscere il mio vero Io. Non avrei ottenuto gli stessi risultati in compagnia, sarei stato inevitabilmente distratto.

Un percorso interamente solitario però non ha sfoghi verso l’esterno: ok, sono diventato una persona migliore, ho imparato qualcosa sulla vita e sul mondo, e mi sono avvicinato alla felicità… e adesso?

Ecco la realizzazione di Chris: “La felicità è reale solo quando è condivisa”. Quando è nato mio figlio Michele ho capito che di strada da solo ne avevo già fatta abbastanza, e che ero finalmente pronto per continuare il mio percorso di vita assieme ad altri.

Ora la felicità non è più una ricerca privata, ma un’esperienza condivisa. Io porto Michele sulle strade che conosco e gli mostro quello che ho capito della vita e del mondo, e lui mi aiuta a ricordare le cose che ho dimenticato crescendo, e di cui lui è ancora custode: la leggerezza, il godere del “qui e ora”, per esempio.

Per quanto riguarda viaggiare con un bambino, non voglio dilungarmi: è solo questione di organizzazione. Certo, cambiano i modi, i tempi… ma il punto è molto semplice: se vuoi, trovi un modo, se non vuoi, trovi una scusa.

E questo vale per tante altre cose, non trovate?


Il blog di Francesco Grandis: wanderingwil.com

1 commento:

Anonimo ha detto...

io mi sarei accontentato di cambiare città.
Ma per vari motivi non l'ho fatto.
Invidio la sua forza d'animo, la sua intraprendenza, ed anche i suoi familiari. Sicuramente i genitori lo avranno sconsigliato. Però lo hanno lasciato partire. A me non lo hanno permesso. Troppo tardi mi sono accorto che i genitori sono persone come tutte le altre. Da piccoli sono i nostri idoli, non sbagliano mai, sono per noi motivo di vanto e di confronto con gli altri. Crescendo ci rendiamo conto di quanto possano essere egoisti, meschini, vendicativi, hanno preferenze per un figlio e denigrano o trattano con sufficienza gli altri figli.

 


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