Non fu certo nell’incontro tra membri della classe
dirigente italiana ed esponenti della finanza anglosassone a bordo del
panfilo Britannia, il 2 giugno 1992, che si decisero le sorti del nostro
Paese, benché non si debba sottovalutare il significato politico di
quel gentlemen’s agreement,
che è diventato simbolo della politica
antinazionale che da allora avrebbe caratterizzato la storia del nostro
Paese. Peraltro, fu proprio nel 1992 che si sarebbero create le
condizioni per dare l’Italia in pasto ai pescecani della finanza
internazionale, sacrificando, per così dire, l’interesse nazionale
sull’altare della “geopolitica occidentale”. Nonostante ciò, la gioiosa
macchina da guerra che avrebbe fatto a pezzi l’Italia si era già messa
in moto perlomeno dal 1981, ossia allorquando c’era stato il divorzio
tra il Tesoro e Bankitalia. Un divorzio che costrinse lo Stato italiano a
finanziarsi sul mercato a tassi d’interesse salatissimi, tanto che il
debito pubblico, che nel 1982 era il 64% del Pil, nel 1992 era diventato
il 105,2% del Pil (1). Scrive Domenico Moro: «Nel 1984 l’Italia
spendeva – al netto degli interessi sul debito – il 42,1% del Pil, che
nel 1994 era aumentato appena al 42,9%. Nello stesso periodo la media Ue
(esclusa l’Italia) passò dal 45,5% al 46,6% e quella dell’eurozona
passò dal 46,7% al 47,7%. Da dove derivava allora la maggiore crescita
del debito italiano? Dalla spesa per interessi sul debito pubblico, che
fu sempre molto più alta di quella degli altri Paesi. La spesa per
interessi crebbe in Italia dall’8% del Pil nel 1984 all’11,4%, livello
di gran lunga maggiore del resto d’Europa. Sempre nello stesso periodo
la media Ue passò dal 4,1% al 4,4% e quella dell’eurozona dal 3,5% al
4,4%» (2).
Ma gli anni Ottanta del secolo scorso furono pure gli anni che videro
i vertici del Pci condurre il “popolo comunista” verso l’altra sponda
dell’Atlantico. Una traversata lunga e difficile, anche perché vi era il
rischio per i “vertici rossi” di arrivare con un numero esiguo di
passeggeri, anziché con un esercito pronto a combattere “al soldo” della
Casa Bianca. A tale proposito, è interessante ricordare quanto ebbe a
dichiarare nel 2008 al “Corsera” il generale Jean riguardo alla presa di
posizione del Pci contro l’installazione dei missili Cruise a Comiso,
avvenuta nel 1985, anche se i lavori nella base siciliana erano
cominciati due anni prima (lavori di cui il generale Jean era ben
informato dato che all’epoca dirigeva il reparto del ministero della
Difesa che controllava le infrastrutture della Nato in Italia). Jean
ricordò ai lettori del “Corsera” che il Pci sui missili Cruise non aveva
fatto “marcia indietro” rispetto alla celebre affermazione di Enrico
Berlinguer, secondo cui si era più sicuri sotto l’ombrello della Nato
anziché sotto quello del Patto di Varsavia, dato che, come precisò Jean,
«il Pci fu sostanzialmente d’accordo, non poteva dichiararlo
apertamente, la sua base non avrebbe capito, ma non creò problemi
eccessivi» (3). Nondimeno, non si deve neppure trascurare che il Psi di
Craxi intralciò non poco i piani del Pci, di modo che, quando cadde il
Muro di Berlino, i “vertici rossi” erano ancora alla prese con la
questione del nome da dare alla “nuova cosa” che avevano in mente da
parecchi anni. Un ritardo che avrebbe potuto costare assai caro ai
dirigenti di quello che si definiva ancora il più forte partito
comunista occidentale.
Una volta crollato il Muro, il 9 novembre del 1989, però di tempo il
Pci non ne perse più e solo tre giorni dopo ci fu la famosa “svolta
della Bolognina”, che nel febbraio del 1991 portò allo scioglimento del
“vecchio e glorioso” partito comunista italiano e alla nascita del
Partito democratico della sinistra. Qualche pezzo gli ex compagni lo
persero, ma fu “roba” di poco conto. Sotto questo aspetto, fu davvero
decisivo il lavoro di “MicroMega”, “L’Espresso “e “la Repubblica”, di
fatto «i principali strumenti della rieducazione “liberalprogressista” e
“antinazionalpopolare” del popolo comunista» (4). D’altra parte, il Pci
già negli anni Ottanta, più che il partito delle tute blu, era
diventato il partito del ceto medio semicolto, formato in buona misura
da colletti bianchi “nullafacenti”, da insegnanti senza nulla da
insegnare e da “parassiti” vari, decisi a risolvere una volta per tutte
la “questione morale” che affligge l’Italia da tempo immemorabile,
benché in verità anch’essi “nati e cresciuti” nel ventre marcio della
partitocrazia e indubbiamente non meno abili nell’appropriarsi del
denaro pubblico dei tanto da loro detestati “ladri” socialisti e
democristiani.
Non fu però ovviamente la “svolta della Bolognina” ad inaugurare il “nuovo corso storico” dell’Italia, bensì l’“intreccio” fra le vicende nazionali e i mutamenti degli equilibri internazionali successivi al crollo dell’Unione Sovietica. Gli eventi del 1992 non lasciano molti dubbi al riguardo. Nel mese di febbraio si firmarono gli accordi di Maastricht (entrati in vigore l’anno successivo). Dei tre negoziatori italiani (Giulio Andreotti, presidente del Consiglio, Gianni De Michelis, ministro degli Esteri, e Guido Carli, ministro del Tesoro) forse solo Carli si rese conto appieno delle conseguenze di questo trattato per la nostra economia, cogliendo pure i potenziali aspetti antiamericani della moneta unica europea, che allora sembrava destinata a porsi come alternativa al dollaro. Non a caso, Carli scrisse: «Gli Stati Uniti hanno esercitato lungamente un diritto di “signoraggio” monetario sul resto del mondo [ragion per cui] negli Stati Uniti […] gli economisti sono scesi in campo per difendere gli interesse della comunità finanziaria americana nel tentativo di delegittimare il progetto di Unione Europea dal punto di vista teorico. La realizzazione del trattato di Maastricht significherebbe la sottrazione agli Stati Uniti di quasi metà del potere di signoraggio di cui dispongono» (5).
Non fu però ovviamente la “svolta della Bolognina” ad inaugurare il “nuovo corso storico” dell’Italia, bensì l’“intreccio” fra le vicende nazionali e i mutamenti degli equilibri internazionali successivi al crollo dell’Unione Sovietica. Gli eventi del 1992 non lasciano molti dubbi al riguardo. Nel mese di febbraio si firmarono gli accordi di Maastricht (entrati in vigore l’anno successivo). Dei tre negoziatori italiani (Giulio Andreotti, presidente del Consiglio, Gianni De Michelis, ministro degli Esteri, e Guido Carli, ministro del Tesoro) forse solo Carli si rese conto appieno delle conseguenze di questo trattato per la nostra economia, cogliendo pure i potenziali aspetti antiamericani della moneta unica europea, che allora sembrava destinata a porsi come alternativa al dollaro. Non a caso, Carli scrisse: «Gli Stati Uniti hanno esercitato lungamente un diritto di “signoraggio” monetario sul resto del mondo [ragion per cui] negli Stati Uniti […] gli economisti sono scesi in campo per difendere gli interesse della comunità finanziaria americana nel tentativo di delegittimare il progetto di Unione Europea dal punto di vista teorico. La realizzazione del trattato di Maastricht significherebbe la sottrazione agli Stati Uniti di quasi metà del potere di signoraggio di cui dispongono» (5).
Lo stesso Mario Monti allora mise in evidenza che gli accordi di
Maastricht comportavano non solo il risanamento della finanza pubblica,
ma pure che “rivoltavano come un guanto” il modello di governo
dell’economia italiana (6). Comunque, le conseguenze del trattato di
Maastricht si capirono soltanto negli anni seguenti, quando sarebbe
stato troppo tardi per porvi rimedio e non furono certo quelle previste
da Carli. Infatti, non furono solo gli economisti americani a scendere
in campo per difendere gli interessi degli Usa. E i “circoli atlantisti”
seppero lavorare così bene che l’euro si sarebbe rivelato ben altro che
una moneta in grado di competere con il dollaro (7). Ma, se i politici
italiani non afferrarono immediatamente le possibili implicazioni del
trattato di Maastricht né capirono quali “contromisure” i “circoli
atlantisti” avrebbero preso, lo si deve pure al fatto che proprio nello
stesso mese di febbraio di quell’anno ormai lontano veniva arrestato a
Milano un “mariuolo”, ossia Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo
Trivulzio ed esponente del Psi milanese. Era cominciata l’operazione
“Mani Pulite”.
Il pool di “Mani Pulite”, come si sa, concentrò tutta la sua “potenza
di fuoco” solo contro una parte della “vecchia classe politica”, tanto
che si sarebbe “sbarazzato” di Tiziana Parenti, che voleva invece
“andare a fondo” pure sulla questione delle “tangenti rosse” al Pci/Pds e
alla quale non era nemmeno sfuggito che l’input dell’inchiesta su
“Tangentopoli” aveva “radici americane” (8). D’altronde, i giornali
italiani – volgari portavoce degli interessi di quella che Gianfranco La
Grassa definisce la Id&Gf (cioè “Industria decotta e Grande
finanza), subalterna agli interessi d’oltreoceano fin da quando (nel
1942) Enrico Cuccia si era recato a Lisbona per trattare la resa del
grande capitale privato italiano agli angloamericani, e garantire così
alla famiglia Agnelli e ai suoi “compagni di merende” un “buon posto a
tavola” una volta finita la guerra – facevano credere ai “semplici” che
fosse in corso addirittura una sorta di “moto rivoluzionario”. Sicché,
quando la politica cercò (con il “decreto Conso” del marzo 1993) di
porre un freno ad una operazione giudiziaria che stava “liquidando” le
uniche forze politiche che (pur corrotte quanto si vuole) erano
contrarie a mettere il nostro Paese nelle mani dei “mercati”, i
gazzettieri gridarono allo scandalo, il pool di “Mani Pulite” si ribellò
e Luigi Scalfaro cestinò il “decreto Conso” ritenendolo
incostituzionale. Ma l’Italia allora era già stata messa in ginocchio
dalla finanza internazionale.
Com’è noto, poco dopo l’incontro a bordo del Britannia, ossia nella
notte tra il 9 eil 10 luglio del 1992, Giuliano Amato penetrò come
Diabolik nei forzieri delle banche italiane e prelevò il 6 per 1.000 da
ogni deposito. La manovra di luglio e una finanziaria “lacrime e sangue”
di oltre 90.000 miliardi si giustificarono con la gravissima situazione
del Paese, che rischiava di non riuscire a piazzare sul mercato i
titoli di Stato, adesso che Bankitalia non era più obbligata ad
acquistarli. Tanto è vero che il breve governo Amato va ricordato anche
per le vicende che videro come protagonista la “vecchia lira”, dacché la
nostra moneta, dall’estate all’autunno del 1992, fu oggetto di un
durissimo attacco da parte di Soros, il famoso “filantropo” e
sostenitore di rivoluzioni colorate in varie parti del mondo” (Ucraina
compresa). Azeglio Ciampi, allora governatore di Bankitalia, decise di
difendere la lira bruciando circa 48 miliardi di dollari, ovverosia
dissipando le nostre riserve valutarie senza ottenere alcun risultato.
Tale ostinata e inutile difesa della lira fu motivata affermando che, se
si svalutava, il Paese sarebbe andato in rovina. A settembre però Amato
dovette gettare la spugna e annunciò la svalutazione della lira. Un
anno dopo avrebbe dichiarato: «La svalutazione ci ha fatto bene» (9). Le
esportazioni tiravano e il peggio pareva passato. Tutto bene allora?
Certamente no.
Invero, la tempesta giudiziaria e quella finanziaria spazzarono via
ogni ostacolo alla (s)vendita del nostro patrimonio pubblico (comprare
“merce” italiana, adesso che le lirette erano svalutate, non era un
problema per il grande capitale straniero). In ogni caso, anche
Berlusconi, “sceso in campo” per difendere le proprie aziende
dall’attacco da parte del Pds (che volle “strafare” offrendo la testa
del “cavaliere nero” alla Id&Gf e così si “giocò” la vittoria nelle
elezioni politiche del 1994), si guardò bene dal cercare di cambiare
questo “stato delle cose”, quando tornò al potere nel giugno del 2001,
dopo la sua prima “non esaltante” esperienza di governo (dal maggio 1994
al gennaio del 1995). Le cifre parlano chiaro: dal 1992 al 1995 le
privatizzazioni fruttarono allo Stato italiano poco meno di 17.000
miliardi di lire; dal 1996 al 2000 si raggiunse la cifra di 79.209,95
miliardi di lire, mentre dal 2000 al 2005 lo Stato incassò dalla vendita
delle nostre aziende pubbliche circa 50.000 miliardi di lire (10). Ma
gran parte di questo “tesoretto” andò ad arricchire quella rendita
finanziaria per la quale da diversi lustri non pochi italiani lavorano,
senza che ancora se ne siano pienamente resi conto. D’altra parte, lo
spettacolo offerto dal “teatrino della politica” non poteva non
“distrarre” il Paese, al punto che tutto il resto pareva non contasse
più nulla.
Non solo passarono così “in secondo piano” il gigantesco terremoto
geopolitico causato dalla scomparsa dell’Unione Sovietica e le
conseguenze del cosiddetto Anschluss, ossia l’annessione della Germania
Est da parte della Germania federale (annessione che avrebbe portato
alla quasi completa deindustrializzazione dell’ex Germania Est e alla
perdita di milioni di posti lavoro – non certo un buon segno per la
futura “unione” europea) (11), ma non venne preso nemmeno in
considerazione il fatto che si stava mettendo “in liquidazione” quel
modello di economia mista che dopo la Seconda guerra mondiale aveva
consentito ad un Paese a sovranità limitata come l’Italia di diventare
un Paese industriale avanzato, garantendo “bene o male” benessere e
sviluppo ad alcune generazioni di italiani. In pratica, ci si limitò a
privatizzare, senza varare alcun “piano industriale”, senza preoccuparsi
di ridefinire gli obiettivi strategici della nazione, stravolgendo
addirittura il sistema educativo per adeguarlo ai “modelli
internazionali” (una scelta i cui effetti nefasti, in verità non solo
per l’Italia, si cominciano a vedere solo adesso). In questo contesto,
venne pure “internazionalizzato” il debito pubblico. E ciò, si badi,
proprio quando gli Usa, ormai unica superpotenza, si lanciavano alla
conquista dell’intero pianeta, rimuovendo ogni ostacolo al “libero”
movimento dei capitali, lasciandosi definitivamente alle spalle gli
accordi di Bretton Woods e autorizzando qualunque crimine finanziario,
purché funzionale al successo della nuova strategia statunitense.
Inutile dire che anche l’introduzione dell’euro non venne affrontata
con la necessaria maturità politica e il senso di responsabilità che un
tale passo richiedeva. Sotto questo profilo, si distinsero in
particolare gli intellettuali per i quali contava solo “entrare in
Europa”, quasi che l’Italia fosse un Paese africano. Non si tenne
nemmeno conto che il Paese si teneva il proprio debito ma al tempo
stesso cedeva la propria sovranità monetaria, non all’Europa, che
politicamente non esisteva, ma ai tecnocrati di Bruxelles e agli “gnomi”
della Bce. Eppure quando i francesi e gli olandesi, nel 2005,
bocciarono la costituzione europea, vi sarebbe stata la possibilità di
rimettere in discussione l’intero progetto europeo, avendo presenti i
gravi rischi che derivavano dalla “inconsistenza geopolitica”
dell’Unione Europea e dalla dipendenza del vecchio continente da
pericolose e perfino anacronistiche “logiche atlantiste”. Ma anche
allora in Italia si prestò poca attenzione ai reali problemi posti da
Eurolandia e dalla nuova architettura politica della Ue, anche perché i
liberal-progressisti, secondo il solito schema concettuale assai caro
alla nostra intellighenzia anglofila, addebitavano tutti i “guai” del
nostro Paese al fatto che gli italiani anziché anglosassoni fossero
latini (ossia fossero “brutti, sporchi e cattivi”), nonché al fatto che
adesso in Italia oltre al papa ci fosse pure “Sua Emittenza”.
Ciò malgrado, anche per i liberal-progressisti era fuori discussione
che la società italiana dovesse diventare una società di mercato sotto
ogni punto di vista, ma a guidare questo processo di trasformazione
avrebbero dovuto essere loro stessi (cioè i “ceti medi riflessivi”, come
loro medesimi si autodefinivano), anziché i “cafoni della destra”, il
cui americanismo era superficiale e non serio, ponderato e maturo come
il loro. I “destri”, autoproclamatisi difensori del “popolo delle
partite Iva” (perlopiù commercianti, liberi professionisti e piccoli
imprenditori) replicavano accusando i “sinistri” di essere ancora
comunisti (una accusa che ancora spesso fanno, dimostrando di avere una
capacità di comprendere la politica minore di quella degli avventori del
“leggendario” bar dello sport). Entrambi gli schieramenti quindi si
accusavano reciprocamente di non avere le competenze necessarie per
modernizzare (leggi: “americanizzare”) il Paese: se per i “sinistri” i
berlusconiani non erano altro che una massa di corrotti ed evasori
fiscali, per i “destri” gli antiberlusconiani erano solo una massa di
ipergarantiti e “mangiapane a tradimento”. Inoltre, gli italiani si
dividevano anche sulla questione del conflitto di interessi, che per i
“sinistri”, finché non fosse stata risolta, non avrebbe dovuto
consentire al “cavaliere nero” (accusato perfino di essere colluso con
la mafia) di governare l’Italia (una questione che “stranamente” i
governi di sinistra, che pure ci sono stati nell’era del berlusconismo,
non hanno mai risolto). Berlusconismo e antiberlusconismo diventavano
così la foglia di fico dietro la quale maturavano le condizioni perché
l’Italia si facesse trovare nella peggiore situazione possibile
allorché, nel 2007/8, si verificò la crisi finanziaria. Ma anche di
questo ben pochi politici e analisti se ne accorsero in tempo, tanto che
nel 2009 secondo l’Ocse la ripresa dell’economia italiana era già in
atto e lo stesso Berlusconi ebbe a dichiarare al “Corsera” che l’Italia
andava a gonfie vele (12).
In effetti, nonostante l’introduzione dell’euro (che di punto in
bianco privò l’Italia della leva fiscale, della leva monetaria e della
leva valutaria) l’economia italiana nei primi anni del terzo millennio
pareva “cavarsela”, se perfino la quota italiana della manifattura
mondiale dal 4,2% nel 2000 era passata al 4,5% nel 2007 (13).
D’altronde, è pure noto che la Germania nel 2003, muovendo da livelli di
Welfare e di reddito molto alti, decise di comprimere i salari e di
sfruttare l’“euro-marco” per diventare una grande potenza commerciale
(14), infischiandosene degli squilibri che tale scelta avrebbe
inevitabilmente generato, dacché la maggior parte degli altri Paesi di
Eurolandia (Italia compresa) non potevano seguire i tedeschi su questa
strada, sempre che non volessero far morire di fame un terzo della
popolazione. Ma con la crisi finanziaria, peraltro costata all’Italia
ben 5 punti del Pil nel 2009, si avviava pure un processo di
deindustrializzazione del Paese, che nel 2013 vedeva quasi dimezzata la
propria quota della manifattura mondiale (2,6%), mentre i “mercati”
potevano usare il debito pubblico italiano, ora pressoché totalmente
fuori controllo, per imporre la politica più favorevole per i loro
interessi. Naturalmente, i gazzettieri sostenevano che ai “mercati”
interessava solo la testa del “clown tricolore”. Una sciocchezza
colossale, come questi ultimi drammatici anni hanno dimostrato, al di là
delle colpe della destra italiana, certo gravi e numerose ma non più
gravi e numerose di quelle della sinistra.
Comunque sia, la situazione del Paese non la si può spiegare solo
elencando i noti difetti del “sistema Italia”, quali la corruzione,
l’inefficienza della pubblica amministrazione, la spesa pubblica
“improduttiva” e l’evasione fiscale. (Non si dovrebbe però nemmeno
“generalizzare”, dato che se da un lato vi sono non pochi impiegati
pubblici onesti e capaci, dall’altro si sa che il “nero”, per una serie
di ragioni dipendenti da “logiche partitocratiche” della cosiddetta
“prima repubblica”, è ancora incorporato nel “ciclo economico”, ragion
per cui è logico che con i metodi di Equitalia la “gallina dalle uova
d’oro” non la si cura ma la si uccide). Ma, proprio come negli anni
Novanta non si trattava di mettere in questione la lotta contro la
corruzione e le “logiche partitocratiche” (che indubbiamente erano un
problema da risolvere), bensì la terapia adottata (giacché avrebbe ancor
più indebolito un organismo che aveva bisogno di ben altre cure), così
oggi l’accento deve essere messo sul fatto che dei “centri egemonici”
stranieri, contando sulla presenza di numerose “quinte colonne”, possono
sfruttare la debolezza del nostro Paese, non solo per evidenti scopi
economici ma anche per scopi geopolitici (forse meno evidenti, ma non
meno importanti). Al riguardo, la subalternità alla politica di potenza
statunitense da parte del ceto politico italiano non è una novità e non
ha bisogno di spiegazioni. Ma oggi una tale condizione di “vassallaggio”
rischia di essere disastrosa per un Paese la cui base produttiva è
ormai “lesionata”, e che, oltre ad essere privo di materie prime, si
trova a dipendere da altri Stati per il suo fabbisogno energetico e dai
“mercati” per quanto concerne il finanziamento del debito (si tratta di
un passivo di circa 150 miliardi di euro all’anno se ai 90 miliardi di
euro per il servizio del debito si aggiunge il passivo della bilancia
energetica – una “emorragia” che sottrae non poche risorse estremamente
preziose per la ripresa e lo sviluppo della nostra economia). Tutto ciò
difatti rafforza ancora di più il controllo del nostro Paese da parte
dei “centri egemonici” atlantisti, le cui strategie non possono certo
avere come scopo la difesa del nostro interesse nazionale. Non
meraviglia allora che il “Belpaese” rischi di tornare ad essere un vaso
di coccio tra vasi di ferro, grazie ad una classe dirigente che in gran
parte è al servizio di potentati stranieri.
Di fatto, la stessa politica “suicida” dell’Italia prima nei
confronti della Libia e ora verso la Russia non ha alcuna spiegazione
valida se non quella secondo cui Roma in realtà “lavora” per tutelare
gli interessi di Washington o, se si preferisce, quelli dell’Occidente,
anche se ciò comporta un danno gravissimo per l’Italia. Il sostegno di
Roma alle guerre d’aggressione degli Usa e alle varie rivoluzioni
colorate (dalla Siria all’Ucraina) “sponsorizzate” dai centri di potere
atlantisti trova una sua logica spiegazione nella “tradizionale”
politica della classe dirigente italiana, che consiste nell’anteporre il
proprio “particulare” all’interesse generale, esercitando, al riparo da
“brutte sorprese”, il “piccolo potere” che la potenza occidentale
predominante concede ad un gruppo politico “subdominante” in una
determinata area geopolitica. L’Italia, che è un’ottima base per la
“proiezione” della potenza statunitense nel Mediterraneo e nel
continente africano, ha appunto il compito di seguire “ciecamente” le
direttive della Nato. Anche la politica italiana nei confronti della
Germania deve essere interpretata alla luce di questa “sostanziale”
subordinazione del ceto politico italiano alle direttive strategiche dei
centri di potere atlantisti. Non è un mistero che un euro politicamente
debole, favorendo la speculazione internazionale e frenando l’economia
europea nel suo complesso, non può che avvantaggiare l’America, per la
quale la disintegrazione di Eurolandia sarebbe un “incubo” (15). Non
“afferrare” questo aspetto della pur complessa situazione europea,
significa inibirsi del tutto la possibilità di comprendere i veri motivi
che hanno spinto anche i politici italiani “meno sprovveduti” ad
accettare una serie di misure che sapevano essere sicuramente nocive per
il nostro Paese.
Si è venuta quindi a creare una situazione che potrebbe cambiare solo
se vi fossero una “visione geopolitica” del mondo e una cultura
politica del tutto diverse, ma di cui purtroppo al momento non si vede
traccia. Né a tale mancanza si può rimediare con il qualunquismo e il
pressappochismo, dato che con l’“antipolitica” (anche ammesso che si sia
in buonafede) non si va da nessuna parte, ma si può solo sprecare un
notevole patrimonio di consensi, lasciandosi sfuggire l’opportunità di
“far voltare” pagina al Paese (come prova la storia del M5S). Invero, si
dovrebbe tener presente che i “guai” dell’Italia sono sempre derivati,
in primo luogo, dalla mancanza di uno Stato forte ed efficiente, in
grado di imporre l’interesse della collettività a scapito di interessi
settoriali e pronto a premiare i meritevoli anziché i “furbi”, nonché
dalla mancanza di una classe dirigente disposta a “pagare in prima
persona”. Sicché, come comprese Gramsci, i ripetuti fallimenti dello
Stato italiano derivano proprio dall’incapacità della sua classe
dirigente di inserire il popolo italiano nel quadro statale, facendo
valere una autentica cultura nazional-popolare (16). La stessa crisi di
Eurolandia, che secondo non pochi analisti è destinata ad aggravarsi con
il passare del tempo, dovrebbe essere perciò un’occasione per creare
una coscienza nazionale all’altezza delle sfide del mondo contemporaneo.
Che l’Italia nei mesi che verranno possa far fronte con successo a tali
sfide è lecito dubitarne, benché ciò non costituisca un valido motivo
per rassegnarsi al peggio. Del resto, gli italiani non sono gli unici
europei che cercano di uscire dal vicolo cieco in cui li ha condotti una
classe dirigente inetta e corrotta. Certo, anche questo potrebbe
apparire un tentativo donchisciottesco, considerando la frammentazione
sociale e il degrado culturale che caratterizzano da tempo non solo
l’Italia ma l’intero continente europeo. Tuttavia, è pur vero che finché
tutto non è perduto, nulla è perduto. In quest’ottica, pertanto,
dovrebbe avere ancora senso battersi contro l’Europa dei tecnocrati e
dei “mercati”, al fine di costruire un polo geopolitico europeo,
composto da nazioni libere e sovrane.
NOTE
1) L’autunno nero del ’92 tra tasse e svalutazioni, “Il Sole 24 Ore”, 23/4/2010. Vedi anche
2) Vedi http://keynesblog.com/2012/08/31/le-vere-cause-del-debito-pubblico-italiano/.
3) M. Nese, Quando la crisi dei missili coinvolse l’ Italia. «Così il Pci decise di non creare problemi», “Corsera”, 18/8/2008.
4) V. Ilari, Guerra civile, Ideazione Editrice, Roma, 2001, p. 77.
5) G. Carli, Cinquant’anni di vita politica italiana, Laterza, Roma-Bari, 1993, pp. 412-413.
6) M. Monti, Il governo dell’economia e della moneta, Longanesi, Milano, 1992.
7) Su questo tema mi permetto di rimandare ad un mio recente articolo: L’Europa nella morsa dell’euro (http://www.cese-m.eu/cesem/2014/12/leuropa-nella-morsa-delleuro/).
8) G. Marrazzo, Tiziana Parenti (ex Pm di Mani Pulite): Di Pietro riferiva dell’inchiesta all’America, “Avanti!”, 30/8/2012.
9) E. Polidori, La svalutazione ci ha fatto bene, “Repubblica”, 23/9/1993.
10) Obiettivi e risultati delle operazioni di privatizzazione di partecipazioni pubbliche, Corte dei Conti.
11) Vedi V. Giacché, Anschluss, Imprimatur, Milano, 2013.
12) Ocse c’è ripresa, Italia al top. «Noi il sesto Paese più ricco», “Corsera”, 6/11/2009.
13) Vedi “Scenari Industriali”, Confindustria centro studi, giugno 2014, n. 5, p. 15.
14) Nondimeno, buona parte dei lavoratori tedeschi non se la passano affatto bene. Vedi, ad esempio, L. Gallino, I debiti della Germania e l’austerità della Merkel, “Repubblica”, 26/8/2013, e Idem, Il Jobs Act? Una pericolosa riforma di destra, “Micromega” (http:// temi. repubblica.it/micromega-online/gallino-%E2%80%9Cil-jobs-act-una-pericolosa riforma -di-destra%E2%80%9D/).
15) Su tale importante questione vedi J. Sapir, Bisogna uscire dall’euro?, Ombre Corte, Verona, 2012.
16) A. Gramsci , Quaderni dal carcere, Einaudi, Torino, 1975, p. 2054.
1) L’autunno nero del ’92 tra tasse e svalutazioni, “Il Sole 24 Ore”, 23/4/2010. Vedi anche
2) Vedi http://keynesblog.com/2012/08/31/le-vere-cause-del-debito-pubblico-italiano/.
3) M. Nese, Quando la crisi dei missili coinvolse l’ Italia. «Così il Pci decise di non creare problemi», “Corsera”, 18/8/2008.
4) V. Ilari, Guerra civile, Ideazione Editrice, Roma, 2001, p. 77.
5) G. Carli, Cinquant’anni di vita politica italiana, Laterza, Roma-Bari, 1993, pp. 412-413.
6) M. Monti, Il governo dell’economia e della moneta, Longanesi, Milano, 1992.
7) Su questo tema mi permetto di rimandare ad un mio recente articolo: L’Europa nella morsa dell’euro (http://www.cese-m.eu/cesem/2014/12/leuropa-nella-morsa-delleuro/).
8) G. Marrazzo, Tiziana Parenti (ex Pm di Mani Pulite): Di Pietro riferiva dell’inchiesta all’America, “Avanti!”, 30/8/2012.
9) E. Polidori, La svalutazione ci ha fatto bene, “Repubblica”, 23/9/1993.
10) Obiettivi e risultati delle operazioni di privatizzazione di partecipazioni pubbliche, Corte dei Conti.
11) Vedi V. Giacché, Anschluss, Imprimatur, Milano, 2013.
12) Ocse c’è ripresa, Italia al top. «Noi il sesto Paese più ricco», “Corsera”, 6/11/2009.
13) Vedi “Scenari Industriali”, Confindustria centro studi, giugno 2014, n. 5, p. 15.
14) Nondimeno, buona parte dei lavoratori tedeschi non se la passano affatto bene. Vedi, ad esempio, L. Gallino, I debiti della Germania e l’austerità della Merkel, “Repubblica”, 26/8/2013, e Idem, Il Jobs Act? Una pericolosa riforma di destra, “Micromega” (http:// temi. repubblica.it/micromega-online/gallino-%E2%80%9Cil-jobs-act-una-pericolosa riforma -di-destra%E2%80%9D/).
15) Su tale importante questione vedi J. Sapir, Bisogna uscire dall’euro?, Ombre Corte, Verona, 2012.
16) A. Gramsci , Quaderni dal carcere, Einaudi, Torino, 1975, p. 2054.
10 commenti:
la vittoria di tsipras in grecia potrebbe segnare una svolta positiva (magari non nell'immediato)per emanciparsi dagli strozzini dell'Ue..
Max ma parli del Renzi greco???
sinceramente non mi sembrano della stessa pasta, chi vivrà vedrà, tanto peggio di così..
Di fatto, la stessa politica “suicida” dell’Italia prima nei confronti della Libia e ora verso la Russia non ha alcuna spiegazione valida se non quella secondo cui Roma in realtà “lavora” per tutelare gli interessi di Washington o, se si preferisce, quelli dell’Occidente, anche se ciò comporta un danno gravissimo per l’Italia.
come tenere sotto controllo milioni di persone in un paese che già di per se e molto difficile controllare?
le impoverisci,le metti una contro l'altra,e infine gli tagli tutti quei possibili mercati esterni che possano aiutarlo a ritornare produttivo..questo a casa mia si chiama "terrorismo finanziario" ma siccome e sponsorizzato dallo stato(e dagli ameri-cani) va tutto bene e la gente si fa ancora prendere per il culo con il terrorismo arabo che altro non e che un estensione della nera mano di Washington per destabilizzare certe aree e certi governi senza contare tutto il possibile iter di leggi interne sulla sicurezza che poi da bravi paladini della giustizia e della verità mettono per continuare con il loro piano di dittatura filo nazista;V
siamo in discesa, non si risale, si scende solo e fino all'inferno
Dopo la discesa agli inferi c'è anche la risalita come cantano gli Annihilator nella canzone intitolata "One Falls,Two Rise",tratta dal loro ultimo album "Feast".
Agli italiani piace nell'ano e
non in quello santo.
per anonimo 26 gennaio 2015 22:02
solo i veri cazzuti risaliranno dall'inferno, a mio avviso non ne vedo molti in giro..
Sono pienamente d'accordo con te anonimo 12:22 anche io non vedo la luce al di fuori del buio tunnel infernale in cui ci troviamo e concordo anche sul fatto che di veri cazzuti che possono risalirne non se ne vedono molti in giro,ma chissà se quei pochissimi,rari,che ci sono non usciranno finalmente fuori allo scoperto e non aiuteranno anche tutti gli altri a risalire la china e uscire dagli attuali "inferi" in cui ci troviamo? Diamo un briciolo di fiducia al caro vecchio Jeff Waters(frontman degli Annihilator) chi lo sa se il messaggio contenuto in quella canzone non avverrà?
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