Da oltre trent’anni, nei Paesi occidentali, è in corso un processo di smantellamento dei diritti e dei livelli di vita conquistati dai ceti subalterni nei decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale. Nel nostro Paese tale processo ha recentemente subito una drammatica accelerazione. Purtroppo manca ancora una diffusa consapevolezza sulle ragioni della crisi che stiamo vivendo e quindi stenta a prender forma una resistenza popolare adeguata.
Non ci addentriamo qui in una riflessione generale sulla fine del “compromesso fordista-keynesiano” e sul passaggio
al capitalismo “neoliberista” e “globalizzato” (tutto ciò è già stato sufficientemente chiarito, almeno nelle linee generali, da una vasta pubblicistica). Ci preme piuttosto sottolineare questo: il compito che sta di fronte a chi oggi voglia difendere i diritti e la democrazia, è quello di individuare gli strumenti concreti con i quali, nei diversi Paesi e nelle diverse situazioni, viene portato avanti l’attacco che stiamo subendo, e di elaborare idee e azioni politiche di contrasto. La nostra convinzione è che, nella specifica realtà dei paesi del sud-Europa, in questa precisa fase, lo strumento fondamentale per tale attacco è rappresentato dal binomio euro/UE, e che ogni seria politica di difesa della democrazia e dei diritti sociali deve assumere come punto ineludibile la fuoriuscita dalla moneta unica e dall’Unione Europea.
Alla base di questa nostra tesi c’è un fatto tecnico, che naturalmente acquista valore politico solo se inserito all’interno di una visione storica un po’ più compiuta e organica di quella che è possibile sviluppare in un breve articolo come questo (per gli approfondimenti rimandiamo al libro che abbiamo dedicato a questo tema: Badiale-Tringali, “La trappola dell’euro”, Asterios 2012).
Il fatto tecnico in questione è molto semplice, e lo spiega bene l’economista indiano Amartya Sen il quale, parlando dell’euro, dice : “Quando tra i diversi paesi hai differenziali di crescita e di produttività, servono aggiustamenti dei tassi di cambio. Non potendo farli, si è dovuto seguire la via degli aggiustamenti nell’economia, cioè più disoccupazione, la rottura dei sindacati, il taglio dei servizi sociali. Costi molto pesanti che spingono verso un declino progressivo.” ( Corriere della Sera, 21 maggio 2013).
In altre parole, l’adozione di una moneta unica fra Paesi che presentano diversi tassi di inflazione, e quindi diversa capacità di competere (perché l’aumento relativo dei prezzi fa diminuire la competitività) ha l’effetto di spingere alla cosiddetta “svalutazione interna”, cioè all’aggressione al mondo del lavoro, al fine di abbassare i salari. Il motivo è semplice: diminuendo i salari e la capacità di spesa della maggioranza della popolazione, si ottiene un raffreddamento dei prezzi, e un conseguente aumento di competitività sull’estero.
Quel che viene spesso taciuto all’opinione pubblica dei Paesi in crisi, come il nostro, è che la bassa inflazione tedesca rispetto alla media dei partner europei, che è la ragione della maggior competitività della Germania, è dovuta, in buona parte, alle politiche di contenimento dei salari messe in opera in quel Paese poco dopo la nascita della moneta unica. Nelle condizioni nuove create dall’adesione all’euro, tali politiche del lavoro assunsero, nei confronti dei partner dell’eurozona, un chiaro stampo competitivo e non collaborativo: hanno contribuito a indebolire le economie dei Paesi con inflazione più alta (i famigerati PIIGS, fra i quali l’Italia) e, di conseguenza, a far nascere la problematica del debito pubblico, poiché, schiacciandone la competitività, hanno reso credibile la possibilità di un default. Il che ha fatto schizzare in alto il valore del premio necessario per far acquistare i loro titoli di Stato. Ecco spiegati i rialzi dello spread fra i titoli italiani e quelli tedeschi. Ecco spiegato perché la BCE impone ai governi di introdurre maggiore flessibilità nel lavoro, facilità di licenziamento, deroghe ai diritti sanciti dai Contratti Nazionali di Lavoro. Ecco spiegato perché Mario Draghi continua a dire che i Paesi in crisi devono fare le stesse riforme realizzate in Germania dal 2003 in avanti.
Alla luce di tutto ciò possiamo rilevare che le campagne contro la finanza speculativa e per il rifiuto del debito, pur contenendo elementi di verità, possono risultare fuorvianti se non vengono collegate al tema dell’euro: l’Italia non è in crisi a causa del debito pubblico (che è alto, ma non ha scatenato la crisi, che ha colpito duramente anche paesi meno indebitati della Germania!), l’Italia ha un problema di debito estero e di perdita di competitività a causa dell’appartenenza all’euro. Dopo essere stata ingabbiato in un cambio fisso rispetto alle valute dell’Europa centrale, il nostro Paese viene privato della sovranità e costretto al rispetto di rigidi parametri di bilancio che strozzano la spesa pubblica e spingono all’austerity, con l’ovvio risultato di avvitare l’economia nella spirale recessiva senza fine che stiamo sperimentando.
Di conseguenza, come nota Amartya Sen, la “svalutazione interna”, necessaria nelle condizioni create dall’euro, non si limita all’attacco al lavoro, ma diventa aggressione ai diritti sociali in generale, a quel poco che resta di Welfare State, ai diritti, ai beni comuni e alla stessa democrazia. Gli avvenimenti più recenti ne sono testimonianza. Non è casuale la rinnovata campagna per il rafforzamento dei poteri del governo a scapito del Parlamento, e per il presidenzialismo; come non è casuale che all’Italia sia stato recentemente concesso di uscire dalla procedura di infrazione europea sul deficit: ciò è accaduto perché il nostro Paese si è impegnato ufficialmente a dar seguito alle “raccomandazioni” della Commissione, fra cui vi sono l’ulteriore riforma del lavoro e la privatizzazione dei servizi pubblici locali.
La realtà di cui prendere atto è che euro e UE sono gli strumenti concreti per ottenere i risultati voluti dal ceto dominante: disoccupazione e precariato, azzeramento del potere contrattuale dei lavoratori, spoliazione delle risorse degli enti locali per imporre la privatizzazione dei beni e dei servizi pubblici. Una volta compreso tutto ciò non si può non immaginare i sorrisi dei ceti dominanti di fronte a chi dice di voler difendere il lavoro e di voler combattere i “piani Marchionne” ormai estesi a tutte le categorie di salariati, ma contemporaneamente non prende nette posizioni contro l’euro e la UE. L’innocuità di simili posizioni è a loro del tutto chiara.
Se vogliamo che smettano di sorridere, e comincino a preoccuparsi per la nascita di forze realmente antagoniste e capaci di far vacillare il loro potere, l’unica strada è quella della lotta contro il sistema politico attuale in tutte le sue ramificazioni e per la difesa della sovranità nazionale e popolare, della partecipazione democratica alle decisioni politiche. E il primo passo da compiere in questo cammino è uscire dalle gabbie dell’euro e della UE. Non ci addentriamo qui in una riflessione generale sulla fine del “compromesso fordista-keynesiano” e sul passaggio
2 commenti:
Concordo...dannazione.
Sono anni che io e molti altri abbiamo capito la trappola dell'euro. Sarebbe bastato , nel 2000, aderire alla UE , ma non alla moneta unica, come ha fatto l'Inghilterra. Ma i nostri politici sapientoni - inebetiti - incapaci , sia dell'epoca sia di adesso, non vedono al di là del loro maso, succubi della Germania, o forse sono messi - da chi detiene il potere economico/finanziario in Europa e nel mondo - nella impossibilità di staccare la spina all'Euro , vera catastrofe per le economie deboli. Come si fa a competere nei mercati internazionali con una moneta che non rappresenta la nostra economia, ma quella della Merkel ? Assurdo.
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