Zheleznogorsk è una cittadina della Russia orientale, affacciata sul fiume Yenisei. Si chiama così solo dal 1992, nonostante la sua costruzione sia avvenuta nel 1950, quando la zona su cui sorge non era nient’altro che un territorio desolato al confine della foresta siberiana. Per oltre 40 anni, fino alla disintegrazione dell’impero sovietico, quasi nessuno è stato al corrente della sua esistenza. Eppure la città era popolata da centinaia di ingegneri, fisici e soldati che chiamavano il posto in cui vivevano con il nome in codice di Krasnoyarsk-26.
Sotto la bandiera rossa dell’Urss issata nella inospitale Siberia, centomila fantasmi hanno vissuto e lavorato ogni giorno in una città altrettanto fantasma, non segnata sulle carte geografiche, difficile da raggiungere e mantenuta appositamente isolata dal mondo. Krasnoyarsk-26 era una delle città segrete dell’Unione Sovietica. Una delle meraviglie moderne dell’ingegneria militare, il complesso nucleare segreto più grande del mondo. Pochi palazzi residenziali costruiti attorno a tre reattori per la produzione di plutonio per le armi atomiche che avrebbero dovuto servire ai russi per vincere la Terza guerra mondiale contro gli Stati Uniti.
Per decenni, in silenzio, la città si è preparata all’apocalisse. Continue esercitazioni, esperimenti e test venivano condotti in strutture sotterranee multilivello con oltre 3500 stanze o in gallerie scavate a 200 metri di profondità all’interno di una montagna. Tutti dovevano essere pronti a tutto, anche ad un attacco a sorpresa. Ecco perché gli impianti dei reattori erano progettati non solo per resistere ad un bombardamento nucleare, ma anche per reagire continuando a produrre plutonio per gli armamenti.
Ma in attesa del conflitto globale, a Krasnoyarsk-26 non si viveva affatto male per gli standard di vita dell’Unione Sovietica. Chi lavorava agli impianti nucleari era ottimamente pagato e poteva godere di molti privilegi sociali per sé e per la propria famiglia. In cambio lo stato comunista imponeva la più assoluta segretezza su quanto accadeva in città. Gli spostamenti degli abitanti erano scoraggiati dalle autorità locali, per entrare o uscire dai confini di quel lembo di Siberia ci voleva un pass speciale. Anche le comunicazioni con il resto del paese erano difficoltose ed avvenivano per lo più per corrispondenza. Le lettere dei familiari dei lavoratori della città segreta, inviate da Mosca o da San Pietroburgo, dovevano essere indirizzate ad una casella postale chiamata appunto “Krasnoyarsk-26”. Nessuna riservatezza, ogni riga era passata al setaccio dagli agenti del KGB.
Molto più agevole era invece l’interconnessione con le altre città segrete russe come Chelyabinsk-65 o Tomsk-7, con cui venivano scambiati minerali ad altri materiali utili per scopi bellici. Nella più rigida disciplina militare, tutto a Krasnoyarsk-26 è rimasto uguale per oltre quarant’anni. La vita dei figli dei soldati e dei fisici nucleari si svolgeva su strade desolate al di sopra dei labirinti sotterranei, in cui costantemente in allarme lavoravano i loro padri. In attesa della resa dei conti finale. Quella che non è mai arrivata.
Nel 1992 il presidente russo Boris Eltsin ha finalmente riconosciuto con un decreto l’esistenza delle città segrete. Krasnoyarsk-26 è apparsa per la prima volta sulle cartine geografiche ufficiali con il nome storico di Zheleznogorsk e nulla è più stato uguale. Chiunque ora può entrare ed uscire ma nella ex città segreta non ci vengono molti turisti perché c’è poco da vedere.
Due dei tre reattori sono stati spenti, alcune attività belliche riconvertite. Rimangono però i segni indelebili della catastrofe ecologica che l’attività della misteriosa Krasnoyarsk-26 ha procurato nella regione siberiana: 3000 tonnellate di scorie radioattive accumulate, materiale pericolosissimo che nessuno a Mosca ha ancora deciso come smaltire. È il prezzo da pagare per aver progettato la fine del mondo.
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