A volte la Terra sembra svegliarsi da un sonno profondo, scossa da tremori che rimbalzano da un luogo all’altro del pianeta. Il 29 settembre 2009, per esempio, alle 19:48 ora italiana, un terremoto di magnitudo 8.1 ha scosso le isole Samoa, nell’oceano Pacifico, causando decine di vittime e generando un violento tsunami che ha attraversato tutto l’oceano. Sedici ore dopo, un altro violento sisma (magnitudo 7.6) ha colpito l’area meridionale di Sumatra, a circa 10 mila km di distanza, provocando centinaia di morti. Poi è stata la volta delle isole Vanuatu, a 2 mila km da Samoa nella stessa direzione di Sumatra, colpite da un sisma di magnitudo 7.3, cioè simile a quello d’Abruzzo.
Abbastanza simile il caso del terremoto a Sumatra (11 aprile 2011) seguito 2 giorni dopo da un piccolo sisma a Palermo (leggi approfondimento).
Quale filo lega questa sorprendente sequenza di eventi? È possibile che un sisma in Turchia, per esempio, possa provocarne uno in Italia? E si può arrivare, almeno in casi come questi, a prevedere l’arrivo di un terremoto e quindi a evacuare la popolazione nelle aree interessate?
Nuove ipotesi
Fino a una decina di anni fa, la risposta dei geologi a queste domande era una sola: assolutamente no; non c’è alcun nesso tra terremoti che si verificano in luoghi così diversi, perché ogni sisma è un evento a sé, scollegato da ogni altro. Più precisamente, non ci sono connessioni tra terremoti che avvengono su faglie (cioè grandi fratture del terreno) diverse. I terremoti, infatti, si formano perché la crosta terrestre è divisa in grandi zattere, le “placche tettoniche”, che si spostano lentamente nel corso dei millenni generando tensioni nelle zone di contatto: sono queste tensioni a causare i terremoti. Già da tempo si sa che i sismi intensi generano repliche di minore intensità lungo la stessa faglia; ma fino a una decina di anni fa si riteneva impossibile che faglie diverse “si parlassero”, ossia che un terremoto avvenuto su una faglia potesse provocarne un altro in un’altra faglia.
Spostamento di energia
Ora, invece, si sospetta che ciò possa accadere. Da questo punto di vista, una delle aree più interessanti del pianeta è la faglia nord anatolica, in Turchia. Questa lunga frattura, che si estende per circa 1.200 km dal Caucaso al Mar Egeo, infatti, è composta da molte faglie che, secondo le teorie tradizionali, non dovrebbero “comunicare” tra loro. I terremoti in questa zona, in altre parole, dovrebbero avvenire in modo del tutto casuale, come se l’epicentro di ogni scossa fosse deciso con un lancio di dado. Invece i 9 terremoti intensi (magnitudo superiore a 7) che si sono susseguiti nell’area dal 1939 al 1999 si sono spostati con regolarità nel tempo da oriente verso occidente: segno che non avvenivano a caso, ma che erano collegati tra loro. Come?
Secondo Ross Stein, geologo dell’Usgs (il Servizio geologico americano) e pioniere di questi studi, l’energia prodotta da un sisma in questa zona si riversa via via più a ovest, aumentando lo stress nelle faglie vicine, che successivamente provocano altri terremoti. «Di solito, quando una faglia si muove producendo un sisma, riduce lo stress che si è accumulato al suo interno, ma lo aumenta in un altro luogo» spiega Stein.
Se fosse vero, i sismologi avrebbero un mezzo in più per calcolare il rischio sismico: un terremoto in una zona potrebbe in alcuni casi far aumentare il rischio che un altro sisma avvenga in una zona adiacente. Secondo il ricercatore, infatti, alcune faglie possono mettersi in movimento se sono colpite da pressioni non superiori a quella di uno pneumatico.
Spostamento di stress
Uno dei terremoti più studiati in tal senso è quello avvenuto a Landers, in California, il 28 giugno 1992, di magnitudo 7.3. Tre ore dopo si verificò un sisma di magnitudo 6.5 a Big Bear, a 45 km di distanza… Una semplice scossa d’assestamento? No, perché Big Bear, anche se è vicino a Landers, si trova su una faglia diversa: secondo le vecchie teorie, quindi, tra i due terremoti non poteva esserci alcun legame. E invece i calcoli al computer hanno dato ragione alle teorie di Stein: il primo terremoto avrebbe fatto aumentare lo stress delle rocce proprio nell’area di Big Bear.
Approfondendo questa ipotesi, Tom Parson, anch’egli del servizio geologico Usa, ha calcolato che un centinaio di terremoti con magnitudo superiore a 7, succedutisi in un arco di tempo di 25 anni, avrebbero innescato circa 1.200 terremoti più leggeri (magnitudo superiore a 5) nel raggio di 250 km dall’evento principale: queste scosse, insomma, non si potevano considerare semplicemente “di assestamento”, ma piuttosto, in accordo con la visione di Stein, una conseguenza dello spostamento degli stress delle rocce da un luogo all’altro. «L’energia rilasciata da un sisma può propagarsi anche per migliaia di km» aggiunge Thomas Henyey, geologo presso l’Università della Southern California di Los Angeles. «Il terremoto del 2002 di magnitudo 7.8 che colpì la faglia Denali in Alaska, per esempio, fece sussultare la faglia Wasatch nello Utah, così come alcune faglie di Yellowstone».
Da Sumatra alla California
A dar manforte alle teorie di Stein ci sono anche gli studi di Taka’aki Taira, dell’Università della California a Berkeley, il quale da anni concentra le sue ricerche lungo la faglia di San Andreas. Questa complessa frattura degli Stati Uniti è la più studiata e controllata del pianeta, al punto che numerosi sismometri ne seguono ogni più piccolo tremore anche a migliaia di metri sotto la superficie terrestre. «Le ricerche degli ultimi anni» spiega Taira «avevano messo in luce che i terremoti all’interno della faglia avvengono con frequenze ben definite, ma dopo il sisma di Sumatra del 2004 abbiamo notato che la frequenza dei sismi è aumentata, anche se è diminuita la loro magnitudo». Secondo Taira, dunque, le onde sismiche provenienti da Sumatra avrebbero scosso le falde acquifere della zona, facendo confluire acqua all’interno delle fratture sotterranee della faglia di San Andreas, con l’effetto di lubrificarle: per questo gli stress accumulati nella faglia sarebbero poi stati rilasciati più frequentemente con sismi a bassa intensità.
Rocce alterate
«Le prove che, almeno a livello locale, vi sia una relazione tra sismi sono così ampie che l’idea è sempre più accettata dalla comunità scientifica» commenta Antonio Piersanti, dirigente di ricerca dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia. «Ora si sta cercando di capire come avviene tale relazione ». Una possibilità, secondo Piersanti, è che ci sia semplicemente un trasferimento di energia, secondo lo schema originario di Stein (come sembra che stia avvenendo in Turchia). Un’altra possibilità è che, in alcuni casi, sia importante il ruolo dell’acqua nelle faglie, come suggeriscono gli studi di Taira in California. In altri casi ancora bisognerebbe considerare come le rocce si modificano quando sono attraversate da onde sismiche... «Tutto questo, però, è assai difficile da trasformare in modelli matematici» commenta Piersanti. Dunque è ancora troppo presto per sfruttare queste conoscenze per poter prevedere i terremoti.
E da noi? Nessuna prova
E in Italia? «Da noi non ci sono prove dirette di relazioni tra terremoti in faglie diverse» dice Piersanti. «Ma questo, forse, non tanto perché non esistono, ma perché è assai difficile rilevare queste interazioni in modo scientifico. Relazioni lungo la stessa faglia per riversamento di energia, invece, sono state rilevate, perché più semplici da mettere in evidenza. Il terremoto dell’Irpinia, per esempio, viene oggi spiegato come un fenomeno legato a una faglia che si ruppe in 2 o 3 punti diversi a breve distanza di tempo». Per il resto, mancano coincidenze sismiche interessanti e studi approfonditi. Tornando alla recente e impressionante sequenza di terremoti a Samoa, Sumatra e isole Vanuatu, invece, è probabile che una connessione effettivamente ci sia, anche se finora nessuno è stato in grado di dimostrarlo. Perché l’analisi di questi fenomeni dura molti mesi. E non c’è da stupirsi: lo studio di come i terremoti “parlano” tra loro è appena cominciato.
L'articolo continua sotto la foto
Nello schema, il modo in cui, secondo recenti studi, il terremoto di Sumatra del 2004 ha alterato l’attività sismica in California.
Da Sumatra alla California
A dar manforte alle teorie di Stein ci sono anche gli studi di Taka’aki Taira, dell’Università della California a Berkeley, il quale da anni concentra le sue ricerche lungo la faglia di San Andreas. Questa complessa frattura degli Stati Uniti è la più studiata e controllata del pianeta, al punto che numerosi sismometri ne seguono ogni più piccolo tremore anche a migliaia di metri sotto la superficie terrestre. «Le ricerche degli ultimi anni» spiega Taira «avevano messo in luce che i terremoti all’interno della faglia avvengono con frequenze ben definite, ma dopo il sisma di Sumatra del 2004 abbiamo notato che la frequenza dei sismi è aumentata, anche se è diminuita la loro magnitudo». Secondo Taira, dunque, le onde sismiche provenienti da Sumatra avrebbero scosso le falde acquifere della zona, facendo confluire acqua all’interno delle fratture sotterranee della faglia di San Andreas, con l’effetto di lubrificarle: per questo gli stress accumulati nella faglia sarebbero poi stati rilasciati più frequentemente con sismi a bassa intensità.
Rocce alterate
«Le prove che, almeno a livello locale, vi sia una relazione tra sismi sono così ampie che l’idea è sempre più accettata dalla comunità scientifica» commenta Antonio Piersanti, dirigente di ricerca dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia. «Ora si sta cercando di capire come avviene tale relazione ». Una possibilità, secondo Piersanti, è che ci sia semplicemente un trasferimento di energia, secondo lo schema originario di Stein (come sembra che stia avvenendo in Turchia). Un’altra possibilità è che, in alcuni casi, sia importante il ruolo dell’acqua nelle faglie, come suggeriscono gli studi di Taira in California. In altri casi ancora bisognerebbe considerare come le rocce si modificano quando sono attraversate da onde sismiche... «Tutto questo, però, è assai difficile da trasformare in modelli matematici» commenta Piersanti. Dunque è ancora troppo presto per sfruttare queste conoscenze per poter prevedere i terremoti.
E da noi? Nessuna prova
E in Italia? «Da noi non ci sono prove dirette di relazioni tra terremoti in faglie diverse» dice Piersanti. «Ma questo, forse, non tanto perché non esistono, ma perché è assai difficile rilevare queste interazioni in modo scientifico. Relazioni lungo la stessa faglia per riversamento di energia, invece, sono state rilevate, perché più semplici da mettere in evidenza. Il terremoto dell’Irpinia, per esempio, viene oggi spiegato come un fenomeno legato a una faglia che si ruppe in 2 o 3 punti diversi a breve distanza di tempo». Per il resto, mancano coincidenze sismiche interessanti e studi approfonditi. Tornando alla recente e impressionante sequenza di terremoti a Samoa, Sumatra e isole Vanuatu, invece, è probabile che una connessione effettivamente ci sia, anche se finora nessuno è stato in grado di dimostrarlo. Perché l’analisi di questi fenomeni dura molti mesi. E non c’è da stupirsi: lo studio di come i terremoti “parlano” tra loro è appena cominciato.
Nessun commento:
Posta un commento