Sorridi, l’Fbi ti osserva. Il progetto Next Generation Identification dell’agenzia federale, partito nel 2010 con un budget di un miliardi di dollari, è ormai entrato nel vivo e nel suo ambito più controverso: il programma di riconoscimento facciale. Secondo il Bureau, poter confrontare i volti di persone presenti sulla scena di un delitto, o fermati per un controllo, con un database di 12 milioni di immagini di noti criminali, consentirà di identificare e arrestare i colpevoli più rapidamente, e con maggiore efficacia.
Spesso usato in serie televisive come CSI: Crime Scene Investigation, è presto destinato a diventare uno strumento di vita reale per combattere il crimine. Nel 2014, quest’anno, l’FBI lancerà la tecnologia su tutti gli Stati Uniti dopo che il test pilota è completato in alcuni stati.
Un alto funzionario dell’agenzia, Jerome Pender, ha assicurato alla Commissione “Privacy, Tecnologia e Legge” del Senato, nel corso di un’audizione tenutasi a luglio, che tutte le richieste di consultazione del database fotografico “dovranno provenire da enti autorizzati e per scopi collegati alla lotta al crimine”. Più in generale, l’Fbi afferma che il programma è pienamente legale e conforme al Privacy Act e che una valutazione di impatto sulla privacy dei cittadini è stata effettuata prima dell’avvio di Ngi con esito positivo.
Tutto ok, dunque? Mica tanto, perché rimangono parecchi punti oscuri. In primo luogo, non è chiaro se, una volta a regime, nel database continueranno a essere presenti soltanto volti di criminali, oppure anche di semplici cittadini, magari raccolte attraverso telecamere di sorveglianza collocate in aree pubbliche o attinte da archivi liberamente fruibili online.
Ma non tutti hanno abbracciato il riconoscimento facciale a braccia aperte.
Nel 2011, Facebook ha introdotto una funzione controversa che identifica automaticamente i volti nelle foto caricate confrontandole con altre foto contrassegnate.
E ‘stato lanciato senza preavviso – una mossa che ha mostrato il fallimento dell’UE come regolatori e attivisti della privacy.
La rivista New Scientist, che per prima ha riportato l’attenzione dei media su Ngi ha provato a girare ai federali la domanda, raccogliendo le preoccupazioni di attivisti per la privacy dell’Electronic Frontier Foundation e dell’American Civil Liberties Union, ma senza ottenere risposta. Alcuni documenti raccolti in passato da Eff sollevano parecchi dubbi in merito. Alla presentazione del progetto, due anni fa, si accennava anche a dataset pubblici, come quello di Facebook, da cui pescare le informazioni.
Altri dubbi derivano dagli accordi stretti dall’agenzia con alcuni degli Stati che hanno aderito alla fase pilota dell’iniziativa, partita nel 2011 – Maryland, Ohio, Hawaii, Michigan e Oregon. Quello con leHawaii sembra suggerire che nel database confluiranno anche foto scattate in luoghi pubblici, con volti di privati cittadini. Il Maryland sembra disposto a dare all’agenzia tutte le foto in suo possesso, senza andare tanto per il sottile. Se il buongiorno si vede dal mattino, i timori degli attivisti per la privacy sembrano avere qualche fondamento.
Senza contare che il riconoscimento facciale è solo uno degli aspetti di Ngi, che include anche analisi del Dna, scansione dell’iride e delle impronte vocali. Una società totalmente monitorata può forse apparire più sicura, ma questo non significa che sia nel complesso un luogo più piacevole dove vivere. Senza contare che accumulando in una singola banca dati tutte le informazioni sui cittadini si corre il rischio di amplificare gli eventuali danni, nel caso un hacker riesca a introdursi nel sistema.
Fonti
http://www.lastampa.it
http://edition.cnn.com
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