L’austerità aumenta la crisi, fa crescere il debito e ne scarica i costi sui più poveri. La soluzione: non pagarlo
di Giorgio Cremaschi
Nello stesso giorno in cui il palazzo festeggia l’annuncio del ritiro da parte della Commissione Europea della procedura di infrazione per eccesso di deficit, l’OCSE rivede in peggio le previsioni sulla disoccupazione ufficiale. Che continuerà a crescere per tutto quest’anno e per quello prossimo, fino a superare il 12%,un livello da anni trenta del secolo scorso.
Se davvero la questione sociale fosse al centro delle preoccupazioni, il secondo dato avrebbe la precedenza sul primo. Ma naturalmente non è così.
Con le politiche di austerità la classe dirigente del paese ha scelto consapevolmente di pagare le riduzione dello spread finanziario con la più che proporzionale crescita dello spread sociale, il resto sono solo lacrime di coccodrillo e ipocrisia elettorale.
Il Presidente della Corte dei Conti ha calcolato in 230 miliardi di euro il mancato prodotto dovuto alle politiche di austerità. Se nel 2014 sarà possibile davvero, come sostiene il governo, recuperare 10 miliardi per investimenti, sarà un ventitreesimo di ciò che si è perso.
La crisi e la recessione, con i loro costi sociali sempre più alti, continueranno non malgrado, ma proprio a causa di quella scelta prioritaria di riduzione del deficit per cui oggi Monti e Letta sono premiati in Europa.
Come si dice nei più falsi comunicati medici, l’operazione è tecnicamente riuscita, ma il paziente….
Immagino a questo punto la solita obiezione scandalizzata: ma la riduzione del debito pubblico è una priorità assoluta, chi la rifiuta è nemico della buona economia e delle nuove generazioni, a cui quelle vecchie spendaccione lasciano da pagare i conti delle loro dissipatezze.
Per mostrare il carattere assolutamente ideologico e in malafede di questa affermazione basterebbe un dato di fatto. Cioè l’aumento dell’ammontare del debito pubblico. Da quando Berlusconi, Monti e ora Letta hanno adottato l’austerità, lo stock del debito è aumentato di quasi 200 miliardi. Quindi le politiche del rigore lasciano alle nuove generazioni più debito da pagare di quelle della “spesa facile”.
Se però consideriamo troppo volgare misurarci con la brutalità di questi dati di fatto, allora andiamo alla idea di fondo.
Cosa lasciano le generazioni precedenti a quelle future? Quello che hanno ereditato dal passato, dal Colosseo alle strade agli ospedali alle scuole, e quello che hanno speso per mantenere e migliorare i beni ricevuti. Il debito non è dunque male in sé, lo diventa in base a quello che finanzia.
Se si spende per migliorare la vita, l’ambiente, la cultura, si lascia un debito che le generazioni future non potranno che positivamente condividere.
Se il debito serve a pagare i profitti delle banche e della finanza, la corruzione, gli F35 e la Tav in Vallesusa, allora è giusto che sia messo in discussione.
Il paradosso è che le politiche di taglio del debito nel nome delle nuove generazioni lasciano sostanzialmente inalterate le spese cattive, e massacrano quelle buone.
Questa è la sostanza della austerità, che altro non è che il tentativo di continuare le politiche economiche liberiste in crisi, facendone pagare tutti i costi non genericamente a questa o a quella generazione, ma a tutte le persone più povere di tutte le generazioni e a ogni età del mondo del lavoro.
Perché da noi non ci si divide aspramente su questo? Perché la politica ufficiale si scontra spesso sul nulla e mai sul debito, sull’austerità e sui patti europei che la impongono? Il conformismo delle classi dirigenti e l’assenza di uno scontro tra alternative reali, che ha come primo effetto l’astensionismo di massa, non è però solo colpa della casta politica o sindacale. Anche gli intellettuali e il mondo della informazione hanno la loro quota di responsabilità. Negli Stati Uniti il premio Nobel Paul Krugman è arrivato agli insulti con i teorici liberisti della austerità Rogoff e Rheinart. In Italia gli esperti economici ufficiali di destra e sinistra quando vanno in tv si danno sempre ragione gli uni con gli altri. E infatti è stato ancora una volta l’americano Krugman ad attaccare Alberto Alesina e la Bocconi per i danni che le loro teorie economiche stanno combinando in Italia e in Europa. In Italia silenzio. È di questo che muore il paese, di cure sbagliate propalate e accettate da gran parte della classe dirigente politica e intellettuale per malafede, conformismo, opportunismo. Da noi più che mai la crisi economica è crisi intellettuale e morale.
Fonte http://popoff.globalist.it
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