La rivoluzione silenziosa dell'Islanda


Lunedì, 18 Luglio 2011

Un paese strano, l'Islanda, come non potrebbe essere altro per un'isola posta al limite del circolo polare Artico, estesa un terzo dell'Italia (circa 100.000 km²) e con una popolazione 200 volte inferiore (320.000 abitanti). Una terra quasi disabitata dunque se non per qualche cittadina sulle coste, con l'interno simile a un deserto montuoso di ghiaccio e di lava: i vulcani e i geyser sono i veri dominatori dell'isola, le forze telluriche a volte devastatrici ma che offrono all'Islanda indispensabili risorse energetiche.

Tutto questo fino a qualche anno fa, quando banche voraci credevano di prendere il loro posto e dare all'isola quello sviluppo repentino e inarrestabile che soltanto la finanza creativa poteva promettere, non certo la ricca e tradizionale ma inesorabilmente limitata e povera attività ittica. L'Islanda ha anticipato i tempi rispetto alla crisi finanziaria che come un ciclone sta travolgendo i paesi dell'euro: nel 2008 infatti l'isola è andata virtualmente in bancarotta. Oggi il paese sta scrivendo una nuova Costituzione (che dovrebbe essere innovativa in campo ambientale e di tutele sociali), come avviene dopo una guerra o dopo una rivoluzione più o meno cruenta. Capire che cosa è avvenuto nella piccola isola ai margini dell'Europa e del mondo, è istruttivo per rendersi conto che nella storia dell'uomo niente può essere dato per scontato.

La storia economica dell’Islanda nell’ultimo secolo è segnata dal pesante interventismo dello Stato che per decenni ha mantenuto il controllo sul sistema finanziario e sull’industria della pesca; le liberalizzazioni messe in campo a incominciare dagli anni ’80 hanno dato soltanto l’impressione di sancire una svolta per una economia che, al di là delle strabilianti ma illusorie cifre che vedevano una robusta crescita del PIL e un reddito pro-capite superiore a quello degli Stati Uniti, rimaneva ingessata. Ma le banche principali del paese cominciavano a comportarsi disinvoltamente, accumulando debiti e promettendo facili profitti, secondo il metodo che avrebbe portato alla crisi del 2008. In quell’anno l’Islanda era a un passo dalla bancarotta: insolvenza dei cittadini che non riuscivano a ripianare i mutui e i crediti concessi con basse garanzie, indebitamento delle banche soprattutto verso l’estero,aumento dei tassi di interesse sui titoli di Stato, esplosione del deficit e del debito pubblico, svalutazione della moneta.

In particolare le tre banche principali la Glitnir, la Kaupþing, la Landsbanki, si scoprono esposte con l’estero per alcuni miliardi di euro, cifre che superano di 7-10 volte l’ammontare del PIL dello Stato! Nel 2009 l’FMI concede un prestito ma il problema fondamentale riguarda la restituzione di 3,4miliardi di euro (ora diventati 3,9) che le banche islandesi, di nuovo nazionalizzate, devono a piccoli risparmiatori inglesi e olandesi. Il governo islandese ha sottoposto a referendum,prima nel marzo 2010 poi nell’aprile 2011, una bozza di accordo per il rimborso, denominato Icesave: in ambedue le occasioni i cittadini, già esasperati e protagonisti di grandi manifestazioni divenute modello per quelle spagnole, hanno respinto la soluzione, esponendo il paese a un grave imbarazzo internazionale e causando una crisi istituzionale che sta portando a una nuova Costituzione.

Sembra che il paese si sia rifiutato di sottostare ai diktat del sistema finanziario globaleche sta soffocando un paese come la Grecia: gli organismi internazionali concedono prestiti per salvare le banche in cambio di tagli insostenibili che cadono sulle spalle dei cittadini. E che alla fine non risolvono il problema. L’interpretazione comune di questo rifiuto islandese esalta la capacità di questo piccolo popolo di scegliere il proprio destino a prescindere dall’esterno, con il tipico orgoglio degli isolani.

In Islanda sarebbe in atto una vera e propria rivoluzione, taciuta volutamente dai massmedia di mezzo mondo. Certamente il fatto di scrivere una nuova Costituzionemediante uno straordinario processo partecipativo che ha visto eleggere 25 cittadini liberi da qualsiasi appartenenza partitica (per elaborare una Magna carta da varare in Parlamento) e che prevede una capillare e continua interazione telematica con i cittadini, appare come un esperimento di partecipazione democratica destinato a fare storia.

Da un punto di vista economico il paese, comunque slegato da particolari vincoli come potrebbe essere l’appartenenza all’Unione Europea e la moneta unica, può comportarsi in maniera disinvolta, compiendo svalutazioni competitive, lasciando galoppare il deficit e facendo un piano di rientro dai debiti a lunghissima scadenza. L’Islanda dunque se la prende con comodo, anche se la crisi pesa gravemente sulla situazione generale. La recessione ha portato bene alla demografia: da quando è scoppiata la crisi gli islandesi si sono messi a fare figli come mai nell'ultimo mezzo secolo.

Tuttavia l’Islanda non può essere presa come modello, sia per le sue caratteristiche intrinseche sia per la marginalità dell’isola nel contesto globale. Va ricordato poi che dietro il debito verso le banche non ci sta soltanto la finanza speculativa internazionale bensì piccoli risparmiatori, cittadini olandesi e inglesi anch’essi vittime dell’allegra gestione islandese e che, in qualche modo, vogliono indietro i loro soldi. È chiaro che l’isola dell’estremo nord può fare la sua rivoluzione e non importarsene delle regole che cercano di governare la comunità internazionale. Ma non è di certo un esempio esportabile.

Piergiorgio Cattani

Proteste popolari in Islanda - Foto: paulmurphymep.eu

http://www.unimondo.org/Guide/Economia/Finanza/Islanda-la-crisi-economica-e-la-rivoluzione-silenziosa

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